La grande poesia pubblicitaria del cartellonismo

Editore: Les Flaneurs
Anno edizione: 2017

…Già il mostro, conscio di sua metallica

anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei

occhi sbarra; immane pe 'l buio

gitta il fischio che sfida lo spazio.

Va l'empio mostro; con traino orribile

sbattendo l'ale gli amor miei portasi

(Giousuè Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno)

L’arte pubblicitaria è stata l’indiscussa protagonista della più grande mostra collettiva del ‘900. Le grandi affiches murali prima e i manifesti poi riempirono ogni spazio urbano, trasformando le città in un grande museo a cielo aperto. La stagione più prolifica di manifesti fu quella a cavallo delle avanguardie, durante la quale vi fu una produzione smisurata di materiale grafico, con l’affermazione di moltissime firme che divennero delle celebrità in campo cartellonistico. A colpire nel segno non fu quasi mai la propaganda commerciale, che pure era nelle “prime intenzioni” dei pubblicitari dell’epoca, ma l’espressione artistica che l’accompagnava e il segno stesso degli artisti. I manifesti colpivano per l’ironia, per la capacità indiscussa di essere capaci di far divertire e di farsi ricordare per sempre. Non è un caso se ancora oggi molti di quei manifesti vivono in molte collezioni pubbliche e private e se certi slogan sono diventati parte del linguaggio comune. Il cartellonismo è stato la vera poesia della pubblicità, e lo testimoniano le migliaia di cartelloni prodotti tra la fine dell’800 e la fine del ‘900, sebbene molti trovino ardito accostare la pubblicità alla poesia, quasi fosse un sacrilegio, una dissacrazione. Eppure, l’arte della réclame ha declinato in versi “grafici” migliaia di forme e di colori illustrando, con raffinatezza, il mondo dei consumi e la frenesia dell’incalzante modernità. E “poetica” – certamente - fu l’intenzione del cartellonismo di restare niente di più che una semplice (si fa per dire) forma d’arte, mettendo da parte quegli ossessivi concetti che in seguito furono invece anima e corpo del mondo del marketing, di certo più appassionato ai numeri delle vendite che alla creatività. Infine, il cartellonismo fu anche “poesia pubblicitaria” intesa come “invocazioni - segnalazioni pubblicitarie - parole in libertà”. Ma qui ci vorrebbe uno spazio grande come un cartellone, è proprio il caso di dire, per raccontare di questa invenzione futurista tutta Deperiana: accostare versi pubblicitari a tavole pittoriche, come nella celebre “declinazione” del Bitter Campari contenuta nel “Numero Unico Futurista Campari 1931”. Per Depero […] la rivoluzione tipografica delle parole in libertà diede alla poesia nuova bellezza pittorica e la poesia non è che un passaggio interno che il poeta ha ragione di esprimere come il pittore, con tutti i piani e tutte le prospettive poetiche e grafiche onde rendere magistralmente viva la propria creazione. Il cartellonismo durò poco, appena più di un secolo. Giusto il tempo di portare quelle appassionanti cartoline “poetiche” nel loro ultimo palcoscenico, quello della televisione, con Carosello. E qui, furono vent’anni di spiritose sperimentazioni, con la nascita di tratti rimasti indelebili nella memoria pubblicitaria di tutti: la Linea di Osvaldo Cavandoli, l’incredibile modernità delle plastiline di Fusako Yusaki, i cartoni animati di Toni Pagot e dei Fratelli Gavioli, le fanciullesche cartoline di Pino Pascali. Fu tutto lì, come in un frullatore. Carosello, e con esso il cartellonismo, finirono la loro esperienza tra le braccia di una malinconica Raffaella Carrà, il primo gennaio del 1977. E quel che ne seguì non ebbe, purtroppo, più nulla di poetico.